(A settembre dell’anno scorso ho iniziato a soffrire di attacchi di panico.)
Sto per prendere il treno dalla stazione sotterranea di Bologna che mi lascerà a Venezia per il Festival del Cinema con un gruppo di amici, quando inizio a raccontare alla mia coinquilina che qualche giorno prima ho provato a salire sulla Torre degli Asinelli senza riuscirci, perché mi sono sentito male. Ma ci scherzo su, perché si è trattato di un malessere fisico, perlopiù; quindi, in pratica, è solo l’ennesimo aneddoto divertente successo durante l’estate in cui non ci siamo visti.
Invece improvvisamente mi blocco. Panico. Le immagini di me chiuso nella parte più alta della Torre mi bombardano il cervello. Realizzo che sono sottoterra. Fiato corto. Non riesco più a respirare. Guardo glaciale la mia coinquilina e in un attimo le chiedo di lasciare le valigie ai nostri amici e farci un giro lì sotto parlandomi di qualunque cosa, aiutandomi a distrarmi, perché devo staccarmi al più presto dal mio cervello. Camminiamo, giriamo in tondo, non riesco a fermarmi. Arriva il treno. La mia testa è un fremito di pensieri, di sensazioni sconosciute che non ho mai provato. Non so che fare. Sono tentato di mollare tutto e tornare a casa. Ho appena avuto un attacco di panico: non posso andare nove giorni a Venezia.
Invece mi faccio forza e salgo sul treno. Fino a quando non usciamo da sottoterra mi sento ancora mancare l’aria, e solo quando vedo la luce del sole fuori dalla galleria mi tranquillizzo un po’. Ma dura poco e la sensazione di panico mi assale di nuovo. Il viaggio è asfissiante: provo a leggere, ad ascoltare musica, a dormire, a distrarmi sui social, a parlare alla mia coinquilina, a fare avanti e indietro tra le carrozze, vado in bagno tre volte, mi alzo, mi siedo, cammino, sto seduto, ma niente. Non riesco a calmarmi. L’unico metodo che trovo e a cui mi aggrappo con le unghie è dividere il viaggio in tappe e pensare che se voglio posso scendere durante una delle fermate. Ferrara. Padova. Mestre. Ce la posso fare. Un’ora e mezza. Solo un’ora e mezza.
Venezia Santa Lucia. Sono arrivato. Appena scendo prendo la boccata d’aria più grande della mia vita, come se avessi viaggiato per tutto il tempo con la testa in una boccia di vetro piena d’acqua.
A Venezia durante il Festival ho altri due attacchi di panico. Non riesco a guardare i film. Parlo con tutti gli operatori sanitari fuori dalle sale cinematografiche. Sento costantemente un peso nel petto che non se ne vuole andare. Fatico a respirare. Non riesco a calmarmi. La sera, quando torniamo all’alloggio, mi ripeto che basta superare la notte, perché il giorno dopo prenderò un autobus e tornerò nella mia Bologna. A casa mia. Dove posso stare tranquillo. Dove posso stare al sicuro.
Invece il giorno dopo mi sveglio, all’inizio sto quasi bene, e mi dico che posso riprovarci, anche se so che arriverà il momento in cui non farò altro che pensare all’ansia, e mi concentrerò sul mio respiro, e ogni volta che si spegneranno le luci in sala mi sentirò mancare il fiato e sarò costretto a fuggire via scrivendo un messaggio nel gruppo Whatsapp dei miei amici in cui cercherò di rassicurarli dicendogli di stare bene, e loro non mi crederanno, e io non mi crederò.
È estate. Fa caldo. Ci sono troppe persone in giro, nelle sale, e io non so come facciano gli altri a respirare normalmente.
Mi compro la valeriana in gocce e inizio a drogarmi di quella. Sento tutti i miei amici al telefono, perfino il mio ex che non chiamo mai. Cerco su Internet, mi informo, mi tocco il cazzo in sala per farmi venire un’erezione e distrarmi. Quando penso che è la seconda volta che sono a Venezia al Festival del Cinema e riesco a malapena a vedere un film al giorno perché la maggior parte delle volte sono costretto a scappare come se ci fosse un incendio intorno a me, mi deprimo. Non è possibile che stia accadendo davvero. Non adesso. Non in questo momento. Non in questo luogo.
Eppure rimango fino alla fine. Nove giorni così. L’ultima sera prima di ripartire penso che non vedo l’ora di tornare a Bologna, perché sono sicuro che starò subito meglio. Che passerà tutto. Che potrò finalmente tirare un sospiro di sollievo e sentire i miei polmoni pieni, liberi.
Invece non succede.
Torno a Bologna e ho di nuovo gli attacchi di panico.
Una delle cose che più mi ha aiutato a far sparire gli attacchi di panico nel giro di un mese è stata che non ho mai avuto paura di chiedere aiuto. Neanche per un secondo: sin dal primo attacco che ho avuto, ho capito subito che da solo non ce l’avrei mai fatta a stare meglio. E per una persona abituata a fare sempre tutto da solo non è semplice.
Ma sapevo di non avere alternative. In più non avevo mai sperimentato quel tipo di dolore, quella sensazione di instabilità mentale in cui ci si sente succubi della propria mente, senza possibilità di controllo. Perciò, quando ho avuto gli altri attacchi di panico a Bologna perché i miei coinquilini uscivano a farsi un giro, per esempio, lasciandomi solo, in balia dei miei pensieri che non aspettavano altro che infettarmi con l’ansia di poter stare male senza che ci fosse qualcuno vicino a me, dopo aver passato estati intere da solo, ho capito che dovevo cercare aiuto, perché non ero più in me. Perché qualcosa stava cambiando: non mi sentivo più autosufficiente. Non mi sentivo più libero. Non riuscivo più a stare a casa da solo, e questa cosa mi faceva impazzire. Dopo che avevo lottato una vita per l’indipendenza e l’autodeterminazione. Dopo che avevo costruito la mia personalità e la mia consapevolezza sulla solitudine, imparando ad accettarla come una compagna e prendendoci cura a vicenda. Invece in quel momento era diventata il mio peggior nemico, insieme al mio peggiore incubo: l’ansia di avere un attacco di panico e non avere nessuno in grado di aiutarmi.
Appena tornato a Bologna ho sofferto di una fase acuta di ansia, che si manifestava con una specie di formicolio che partiva dalle punte dei piedi e che in poco tempo si diffondeva in tutto il corpo. Quel formicolio era un campanello d’allarme: significava che se non mi calmavo al più presto avrei avuto un attacco di panico. Ansia che genera ansia. Ero entrato in un circolo vizioso.
Sentivo quel formicolio quando non mi ricordavo una cosa che volevo dire o un nome, e nella mia testa partiva una corsa contro il tempo per cercare di ricordarmelo prima che giungesse l’attacco di panico; sentivo quel formicolio quando non riuscivo a disiscrivermi dalle newsletter; sentivo quel formicolio ogni volta che passavo davanti a un barbone o a qualche personaggio di Bologna mentalmente poco stabile, che urlava o parlava da solo per strada, pensando che quella sarebbe stata la mia fine; sentivo quel formicolio quando mangiavo troppo e avevo lo stomaco pieno, immaginandomi che sarei morto soffocato. Non potevo dormire di lato o a pancia sotto, perché l’ansia era talmente forte e opprimente che non mi faceva rilassare il petto. Le ossessioni degli altri diventavano le mie: mi dicevano che era normale che sfogassi lo stress dell’ansia cercando di controllare il respiro, perché loro lo avevano fatto in certi periodi con il rumore nelle orecchie quando deglutisci, con lo sbattere delle palpebre, con le voci nel cervello, e allora il rumore nelle orecchie quando deglutisci, lo sbattere delle palpebre e le voci nel cervello diventavano i miei tic.
Ero terrorizzato da qualunque cosa. Vivevo con la paura che tutto potesse trasformarsi in un’ossessione letale che non mi avrebbe più lasciato. Pensai che non volevo vivere così per sempre.
Che se avessi dovuto controllare il mio respiro ogni minuto per tutta la vita avrei preferito finirla prima.
Il primo aiuto che ho trovato dopo gli amici è stato quello psicologico. Mi sono messo subito a cercare qualcuno che costasse poco, essendo uno dei soliti studenti fuori sede senza tanti soldi. Sono finito in un consultorio con una psicologa che mi ha seguito per circa due mesi, con cui mi sarei trovato pure bene se non fosse stato che le sedute costavano trentacinque euro per mezz’ora. Ed era un consultorio.
Un altro aiuto fondamentale me l’hanno dato le persone che mi stavano accanto. Tutte, dalla prima all’ultima che ho ammorbato con i miei problemi. Da riservato e introverso quale sono, c’è stato un unico pensiero a cui mi sono aggrappato e che ero convinto mi potesse aiutare: devo dirlo a tutti. Anche alle persone con cui non ero solito sentirmi più di tanto. Anche agli sconosciuti su Grindr, se capitava. È così è stato. E mi ha aiutato tantissimo, perché il primo passo per stare meglio è sempre lo stesso e vale per tutti e per qualsiasi problema: la presa di coscienza di non essere soli. O pazzi, come nel mio caso. Sapevo che un sacco di persone soffrono o hanno sofferto di ansia e attacchi di panico, ma parlarne è stato diverso, perché mi catapultava in una dimensione del tutto interpersonale in cui mi sentivo di poter condividere quella parte così oscura e priva di qualsiasi logica con qualcuno che, sapevo, mi avrebbe capito sul serio.
Dopo che un’amica mi raccontò che il suo medico le aveva prescritto lo Xanax dicendole “tienilo sempre con te nella borsetta fino a che non scade, ma non usarlo”, riuscii a ottenere uno psicofarmaco anch’io: il Diazepam, che non so se per fortuna o sfortuna non usai mai, se non come ancora di salvezza: lo tenevo lì, nello zaino, tra la boccetta di Valeriana e i Fiori di Bach, ripetendomi che se ne avessi avuto bisogno potevo prenderne qualche goccia. E funzionò: il solo pensiero di averlo mi aiutò a tranquillizzarmi. Mi faceva stare meglio. E io non l’ho mai usato. Ci sono andato vicino, molto vicino, ma ogni volta ero più terrorizzato dal pensiero di usarlo con il rischio di diventarne dipendente che dagli attacchi di panico.
Le paure si annullavano a vicenda.
Devo dire che anche allontanare persone che in quel momento non mi facevano stare bene mi aiutò molto. Non per colpa loro, chiaro, ma a volte quelli che provano ad aiutarci di più non ci aiutano nel modo giusto, e allora rischiano solo di fare più danni che altro.
Non so se sono io che ho sviluppato una maggiore consapevolezza rispetto alle persone che mi circondano, ma sono convinto di una cosa: se sappiamo ascoltarci, se sappiamo farlo davvero, spesso ci accorgiamo che la risposta alle nostre domande ce l’abbiamo sempre avuta, ma fingevamo che non ci fosse quella voce perché a nessuno piace affrontare i problemi. Tutti vorremmo crescere e migliorare e diventare persone migliori e più sagge senza ripercussioni, senza passare dal fango, senza soffrire. Ebbene, news dell’ultima ora: non si può.
A volte, però, se qualcuno ci parla assecondando quella vocina dentro di noi, lo ascoltiamo di più. Perché capita che non ci fidiamo di noi stessi, e abbiamo bisogno di conferme dall’esterno. Non c’è niente di male: a questo servono gli amici e gli psicologi. Così, quando la mia psicologa mi disse che stavo trattando il mio compagno di allora come trattavo il Diazepam, ovvero lasciandolo sul comò, senza curarmi di lui, ma affidandomi al pensiero salvifico che se mi fosse successo qualcosa di brutto avrei potuto contare su di lui, si attivò qualcosa in me. Come quando mi venne un attacco di panico e corsi da lui perché, essendo un medico, pensavo che se non fossi riuscito più a respirare avrebbe potuto incidermi un buco alla trachea e salvarmi.
Come fanno nei film.
Quindi, ricapitolando: parlarne con tutti, cercare subito un sostegno psicologico, procurarsi delle ancore di salvezza che siano rimedi naturali o psicofarmaci da usare all’occorrenza con prudenza e non persone, e amici, tanti, tantissimi amici. Perché è soprattutto grazie a loro, che si sono vestiti in un nanosecondo all’una di notte dopo avergli detto che avevo bisogno di uscire perché stavo avendo un attacco di panico accompagnandomi fuori, che sono riuscito a uscirne.
Ho combattuto con gli attacchi di panico per un mese intero, fino a quando non sono riuscito ad accettarli, credo. Anche se non sono pienamente sicuro di averlo fatto.
In compenso, c’è l’ansia a farmi compagnia, adesso. Non mi ha mollato da allora: ogni giorno so che arriverà il momento in cui penserò al mio respiro e sarò attanagliato dalla paura di perderlo, rischiando di avere un attacco di panico. Perché è così che sfogo la mia ansia: con l’ossessione di controllarlo. Colpa di quella prima e unica volta in cui sono andato in iperventilazione. O forse no.
Fatto sta che non so se un giorno quest’ansia sparirà mai, anche se sono più spinto a dire di no che sì. Ma per il momento non importa: ho capito che non voglio pensare a lei come a un nemico, a un mostro, a un’entità malefica da abbattere a qualunque costo e con qualunque mezzo, ma come a una compagna, un’altra amica da tenermi stretta come la solitudine. Perché so che, almeno per il momento, lei non mi abbandonerà mai. So che nel momento in cui la mia testa mi farà brutti scherzi aprendo il vaso di Pandora e lasciando uscire qualsiasi immagine catastrofica che mi possa gettare nel panico nell’arco di un secondo, potrò di nuovo concentrarmi sul mio respiro, annullando tutto il resto. So che anche se andrò nel pallone non succederà niente: continuerò a vivere. So che se la mia testa deciderà di prendere il sopravvento iniziando a farmi sentire il formicolio a piedi, poi il tepore in tutto il corpo, poi il cuore che batte all’impazzata, prima o poi passerà.
Non è granché, ma per il momento è pur sempre qualcosa.